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Di fattine distratte e amiche strafighe, ovvero come sopravvivere senza climatizzatore
In barba alle valanghe di lamentele sulle esagerate temperature di quest’ interminabile luglio, confesso che a me il caldo piace. E non perché mi faccia stare bene o mi renda piena di energia; abito in una mansarda del 1920 che sembra più un forno crematorio e mi stupisco di svegliarmi la mattina ancora intera e non ridotta in cenere.
Ecco, a me il caldo piace perché mi toglie ogni ardita fantasia di lanciarmi in qualsiasi tipo di attività fisica o mentale: ho la scusa per non avere voglia di fare un benemerito cazzo. Mi trascino in giro per le stanze, guardando con disprezzo i panni da ritirare, i vetri picchiettati dai piccioni, il letto perennemente sfatto col lenzuolo buttato di traverso come il Santo Sudario all’indomani di una resurrezione un po’ travagliata.
Esco dalla doccia gocciolante, l’asciugamano non serve, e godo intensissimamente per circa 30 secondi, il tempo necessario alle goccioline d’acqua per evaporare dalla mia pelle. Si sa, non sempre si possono avere alte prestazioni e durata contemporaneamente…
Poi mi trascino in un qualche parco, vittima della leggenda metropolitana secondo la quale gli alberi portino frescura. Macché! Il Po si è trasformato nel Rio delle Amazzoni e non mi stupirei di vedere banchi di piranha aggredire canoisti coraggiosi. In fondo se ci sono gli squali martello in Sicilia , io voglio avvistare pesci assassini nel fiume cittadino.
Incontro la mia amica bionda invece. Lei è alta, flessuosa, sempre pettinata che manco le shampiste di Jean Louis David, con trucco perfetto che nemmeno le commesse di Sephora, e l’eyeliner, (dico l’eyeliner!) messo su con il goniometro senza una sbavatura. Ma come fa??? Come??? Io emetto acqua da tutti i pori tipo vaporella, il mascara si è sciolto stile panda e la mia faccia è più lucida di una trota sul banco freschi dell’Ipercoop. E poi, lei, profuma. Mughetto dell’Himalaya, Rosa del Kentucky, Patchouli della Patagonia; mentre io olezzo di Autan della Valpadana. Cammina verso me sorridente e leggiadra volteggiando su antipatici trampoli d’ursiani come se ci fosse nata, esibendo caviglie infinite, da gru. Io ho i sandali della geox e i piedi gonfi per il caldo che Pippo Pampers mi farebbe na pippa.
A sei anni misi il mio incisivo da latte appena caduto sotto il cuscino e chiesi alla fatina del dentino di farmi diventare, da grande, come la mia attuale amica : alta, bionda e sottile. Ma la mia FaTTina era appena uscita dalle Vallette e a me assegnata d’ufficio per i lavori socialmente utili. Avvezza piu’ a distribuire polvere bianca che stare appresso ai sogni di bambini sdentati, ha esaudito il desiderio di qualcun altro: assomiglio più a Calimero che alla Kidman e mi ritrovo gambe corte su polpacci da ciclista. Era il dentino di un baby sherpa. Ora rido un sacco pensando ad un andino quarantenne biondo e magrino. Chissà se anche nelle remote zone degli altopiani Incas si da la colpa agli idraulici quando un bimbo vien su con una cromia sconcertante.
Ho detestato le mie gambe poco hollywoodiane e i miei capelli castani durante l’adolescenza, quando incassi i primi pugni all’anima, quelli che ti tolgono l’aria nel momento in cui comprendi che il compagno di classe di cui sei tanto innamorata è invaghito a sua volta di Sabrina, alta bionda e cretina. Più tardi ho realizzato che le bionde si scottano ed invecchiano prima, che gambe solide mi permettono di arrampicarmi ovunque e soprattutto che la statura da Puffetta mi consente d’ indossare i tacchi più arditi senza temere d’essere più alta del cavaliere che mi porta a cena.
Vorrei anche dire di aver capito che i pugni all’anima cessano di fare tanto male ad un certo punto. Purtroppo no, quelli riescono sempre a togliere fiato e sonno come la prima volta. Non importa quanti anni abbia il corpo. L’anima rimane quella racchiusa nel sonno di un bambino che, la notte, affida il suoi sogni al cuscino.
Mi arrampicherò sulle Ande prima o poi, alla ricerca del biondo quechua che mi ha fottuto il dentino.